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Bologna editoriale numero-01

01-Editoriale

Sono le 5.35 in via Massarenti, a Bologna. È buio, il cielo è sereno ma fa ancora freddo. Biagio Barbieri si stringe nel cappotto, si abbassa la mascherina circospetto e si accende una sigaretta. Alla pensilina c’è solo un’altra signora, sui cinquanta, la pelle scura e le buste della spesa vicino alle ginocchia; poco più in là c’è il sig. Venturi, Vento per gli amici. Biagio gli fa un cenno di saluto, ma non si avvicina-no. Sbuffa il fumo mentre guarda fisso davanti a sè. Ven-to non fuma neanche più nei luoghi pubblici, ha la madre che non sta bene, non può correre rischi. Non chiacchiera più, non si vede più nemmeno al circolo. Biagio deve chia-marlo al telefono per sapere come sta. Si guarda le scarpe antinfortunistiche sporche, le muove piano per scaldarsi. Del resto, il circolo non è più divertente: i pensionati non vengono quasi più, non possono giocare a carte. Qualche coraggioso la domenica lo si vede ancora, coraggioso o molto solo, ma in entrambi i casi ad un bianchino non ri-nunciano. Quegli anziani gli piacciono, gli ricordano suo padre. Bestemmia a denti stretti. In fabbrica hanno anche tolto la macchinetta del caffè.
Passa il bus: all’interno tre o quattro tute da lavoro distan-ziate, occupano i posti agli angoli. Vento rimane in piedi, si attacca ad un palo con i guanti.Maimuna rimane seduta sulla panca della pensilina, le buste vicino alle ginocchia. Non potrebbe sedersi, ma fa molta fatica a stare in piedi. Aspetta un altro autobus che la riporti a casa. Lei di lavo-rare ha appena finito: un’altra notte in bianco passata in stanza vicino a una signora anziana, a calmarla quando si sveglia urlando, a controllare che non cada dal letto, a por-tarla in bagno quando serve, a pulirla quando non serve più. Pensa a come la guardava il figlio della signora: non si fida, ha paura che contagi la madre. La vuole licenziare, glielo legge negli occhi. La figlia invece è più tranquilla, più, come si dice, accondiscendente. Ma anche questo a Maimuna non piace: loro decidono come passa le notti, lei vorrebbe essere libera di decidere come passare le gior-nate. Il suo tempo non è nè una concessione nè un ricatto. Sospira. Finalmente vede la scritta luminosa del bus che si avvicina. Dalla porta centrale escono tre persone: un me-dico, una dottoressa e un infermiere. Li si riconosce per-ché ciascun* di loro ha almeno due mascherine addosso.Quando arriva il pomeriggio è già buio, solo i lampioni illuminano la nebbia densa. <>. Souliman, sedu-to alla fermata, alza lo sguaro e immagina i fiocchi di neve che gli si poggiano sul viso tintinnando, come cristalli impalpabili. Sou-liman sta seduto alla fermata, ma non aspetta nessun autobus. Qui semplice-mente può sedersi almeno un pò sen-za che qualcuno lo guardi male, senza dover dare spiegazioni del suo stare lì. Poi però dopo un pò deve muoversi, perchè il freddo gli entra dentro e allo-ra è meglio camminare. Ogni tanto gli si siede a fianco una ragazza, è sempre un pò nervosa, dice che quando non c’è nessuno in strada i passi rimbombano così tanto che le sembra sempre che qualcuno la stia seguendo. Souliman la ascolta, ma non sa risponderle, per lui nessun posto è mai stato un posto sicuro. Stancamente le porte di un bus si aprono e la ra-gazza salta su. Va verso casa di un amico che dovrebbe avere ancora un pò d’erba. Non si trova più niente in giro e lei ha un disperato bisogno di rilassarsi. Ha pochi spicci in tasca, tantissimi dubbi e un destino rivoltato ogni setti-mana da mesi. <>. Marlene è ormai sull’autobus, le porte si chiudono e lei pensa alla storia che le avevano raccontato su Sarajevo, la città che in guerra trascorse quattro anni isolata sotto i bombardamenti. Tra il ‘92 e il ‘96 gli abitanti risposero all’assedio e alle bombe esprimendo tutta la vita che potevano con l’arte. Furono organizzati festival di teatro, concerti espettacoli. Nacque una radio, “RadioMuro”, che passava testimonianze, musi-ca e solidarietà quando anche uscire in strada e incontrarsi sembrava impossibile. <>

Questo è un editoriale scritto a più mani. Ci riserviamo di poter mutare narrazione e mezzo di scrittura, sperimenta-re. Questo racconto ha tentato di narrare una realtà mol-to più sfaccettata di quella che ci descrivono i media, fat-ta di vite, di storie e di prospettive diverse che si incrociano. In questi mesi pandemici il virus ha scoperchiato la necessità di ribaltare un paradigma che è quello del capitalismo con la sua narrazione forzatamente lineare e fintamente oggettiva del mon-do che ci schiaccia, rendendoci oggetti e non soggetti delle nostre stesse vite, delle nostre stesse paure. Così restiamo chiusi, men-tre, aperte restano solo le fabbriche. Costruire una visione diver-sa del mondo non è solo teoria: occorre trovare nuovi terreni di solidarietà e di collettivizzazione, in ogni ambito, cogliendo ogni possibilità di rompere le regole di un sistema malato che vive di competizione tra individui e tra comunità. In un momento diffi-cile e delicato come questo ci rendiamo conto che anche il lessico non ci salva da facili semplificazioni e da accostamenti a mo-delli obbrobriosi. Così partiamo decidendo di sperimentare at-traverso la nostra necessità di espressione, attraverso il racconto collettivo, il creare insieme, perchè è attraverso la collettività che nascono le cose più belle. Il sogno, l’immaginazione, l’arte, come forme di vita, e non stantie rappresentazioni di se stesse, costituisco-no una possibilità di resistenza, una piattaforma di incontro che attraverso le parole scritte e gli scarabocchi raccontino il mondo dentro di noi, così come i mondi più lontani che ancora non conosciamo. Perchè si tratta delle vite di tutt* e non solo di poch*, del-le vite fuori e dentro i confini di noi stess* e dei confini tout court. Non pretendiamo una facile vittoria, ma di certo rivendichia-mo la possibilità di porci dal lato della bar-ricata di chi ancora desidera una vita radi-calmente diversa. Per noi, la parte giusta.