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Il neoliberalismo e la depressione da cameretta

Siamo cresciute in una società in cui il modello economico neoliberista si è insinuato in tutte le sfaccettature della nostra vita, arrivando a condizionare il nostro inconscio in maniera subdola e inconsapevole . Dalla scuola, passando per la vita domestica e gli svaghi, in ogni momento, questo costrutto mentale, dato ormai per scontato dai più, permea costantemente il nostro vissuto. Ci potremmo soffermare sui vari aspetti di quello che esso provoca nelle vite di tante: dal non sapere cosa fare del proprio tempo libero al non riuscire a ritagliarsi uno spazio al di fuori del proprio lavoro per coltivare i propri interessi o informarsi. La libertà, secondo il neoliberismo interiorizzato, consiste nel fantasticare per 340 giorni l’anno con le proprie colleghe in quale parte del globo sperperare tutti i sudati guadagni per quei benedetti attesissimi 25 giorni di ferie, magari a metà agosto, magari accalcati come sardine in mezzo a tanti altri turisti.

Si potrebbe scrivere di tutte queste esperienze per molto, ma in questo articolo mi vorrei soffermare su una in particolare, ovvero quella che io definirei “la depressione da cameretta”: uno stato in cui ci ritroviamo a cadere in molte nel tempo libero. Il rinchiudersi in camera e provare un vuoto interiore, un senso di inutilità, impotenza, magari pensando che la colpa di questo stato sia solamente personale, senza considerare il fatto che possa esser il dramma di tante e che il tutto possa avere anche radici in questa società. Un problema endemico di cui anche se siamo perfettamente consapevoli, nel momento in cui ci coinvolge, non riusciamo proprio a contestualizzare. Dentro le nostre camerette ci sentiamo isolati e privati della possibilità di esprimerci e fuori casa gli unici spazi aperti sono locali finalizzati al profitto. Del resto, questo è l’aspetto più rilevante che dobbiamo offrire in questi luoghi: un’azione di versamento economico.

Quello che invece tante cercano di ottenere lottando è la possibilità di poter usufruire di altri tipi di spazi. Luoghi dove chiunque può avere parola e proporre iniziative senza che vi sia un “business plan” o un fondo monetario che le supporti. Quando in uno spazio si paga l’affitto si è infatti costretti a piegarsi inevitabilmente a logiche economiche esclusiviste: ogni attività al suo interno deve necessariamente fornire un ritorno economico e volendo o non volendo molto diventa legato a questo. Negli spazi liberi da queste logiche si può invece sperimentare con tranquillità, incontrarsi senza essere costretti a consumare qualcosa, proporre un’attività sportiva, culturale, politica, un festival ecc.

Ci hanno abituate a pensare che gli unici modi per realizzarci e poter svolgere le attività che vorremmo, è mettere in piedi un’attività economica, una partita IVA, un’azienda, magari con dei dipendenti, magari verticistica, con a capo poche persone o addirittura una sola. Invece dobbiamo tornare a pensare spazi di libertà comuni, realmente pubblici, dove poter incontrarci e auto-organizzarci, dove poter impiegare il nostro tempo libero o ancor meglio, semplicemente “il tempo”, slegandolo da etichette. A Bologna sono stati sgomberati quasi tutti gli spazi di questo tipo e ci ritroviamo a combattere l’ennesima amministrazione votata al capitalismo rampante, alimentatrice di competizione fra associazioni no profit (vedasi la politica dei bandi a tutti i costi) e privatizzazione degli spazi. Tutto viene messo in classifica, ordinato e incasellato. Per l’establishment tutto quello che va fuori dagli schemi è un nemico da abbattere o addomesticare: è così che i media del potere in primis e poi la politica a ruota agiscono. Se si prova a pensare in modo diverso, non allineato, si diventa un problema da smantellare al più presto, da sbattere in prima pagina per destare l’indignazione dei lettori moralisti. Il potere non può lasciare la possibilità di sperimentare altri modi di fare, di vivere.

La rubrica de “Il Gelataio”