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Bologna

È come il Messico

28/04/20

Dovevamo fermarci prima, molto prima.

Ma sì certo. Adesso lo dici pure tu, non lo vedi come siamo combinati? Voglio dire, adesso non ti pare un po’ tardi per pensare?

Certe volte è l’unica cosa da fare. Fermarsi.

A pensare?

Sì, a pensare.

Beh. E che vuoi pensare?

Non voglio. Io devo, capisci? È un lavoro. E non mi sento soddisfatto di come ho pensato fino adesso. Pensare come ho fatto fino adesso non mi ha portato in Messico.

Ehi, aspetta! Ma tu lo sai dov’è il Messico?

Esattamente no. Forse non ho bisogno di saperlo. Forse non è un luogo preciso quello che ho in mente e che chiamo Messico. Forse è sufficiente che adesso io abbia voglia di andarci, ma devo cambiare strada.

Sì…forse, ma perché?

Anche questa non mi pare una domanda essenziale, al momento. Non mi capisci?

No.

Il Messico, o come vogliamo chiamarlo, bisogna inventarlo.

Adesso?

Sì, adesso.

E da cosa partiamo?

Ma non saprei, da un punto qualsiasi. Tracciamo una linea, così. Partiamo dal cielo. Dalle nuvole del Messico.

Dai, non dire stronzate. Hanno già parlato delle nuvole del Messico.

Sì, hai ragione. E ancora non capisco perché sarebbero l’altra faccia della tristezza. No, non lo penso in questi termini. È tutto il mio desiderio, il Messico.

Secondo me, non ne hai proprio idea. Ancora non sai cos’è per te il Messico.

Forse, ma non è necessario. Io voglio andarci. Mettermi le scarpe, prendere la bicicletta, sentire il vento sulle braccia e sulla mia maglietta.

E questo lo chiami Messico?

Sì, lo chiamo Messico.

E cos’altro?

Forse mi basta uscire dalla mia stanza, infilarmi una giacca, rollarmi la sigaretta e uscire, di corsa giù per le scale, come se una forza irresistibile e animale mi trascinasse per il colletto, spalancare il portone e correre verso la stazione, perché devo prendere un treno. Un affollatissimo treno pieno di gente che puzza, che ribolle di sudore turbinato nell’aria condizionata.

Lo chiami Messico questo?

Sì, anche questo.

E che altro?

Guardare la gente in altro modo, parlarle in un altro modo. Sorriderle, come se avessi capito che siamo ancora bambini e che da sempre stiamo giocando. Chiamo Messico anche questo.

E poi?

Forse sfiorare col piede la sabbia in riva al mare, aspettando che arrivi l’onda. Sentire l’acqua fredda e buttarmi lo stesso, perché non l’ho mai fatto in quel modo così sfacciato e privo di scrupoli. A che serve buttarsi in acqua senza i brividi? A che serve nuotare, se non per dimenticare il freddo? Perché in tutta la vita non mi sono reso conto che avevo paura del mare? Proprio per questo, ne avevo così tanta voglia? E rispondermi sincero: sì, è così. Ma non adesso, che nuoto sopra una nuvola di meduse, che vergo bracciata dopo bracciata la distanza che mi separa dai miei squallidi conforti, dalla mia riva mesta intricata di alghe, dagli anni trascorsi chiuso in una certa idea di me stesso. In un attimo sapere tutto quanto il mio segreto, mettermi sul dorso, schiaffeggiare l’acqua e ridere come un matto.

Anche questo si dice Messico?

Sì, è come il Messico, baby.

C’è altro?

Oh sì, c’è tanto altro. Potrei chiamare Messico tutto quello che desidero, perfino tutto quello che non so ancora di desiderare ma che c’è da qualche parte e mi si rivelerà solo in un altro momento, per caso, quando non guarderò in nessun punto particolare mentre corro, o forse mentre guido per andare a un appuntamento. Magari il Messico verrà in un giorno di temporale mentre la bestia che ho dentro mi morsica il cuore. Forse verrà mentre farò l’amore. Forse perderò ancora e ancora il filo, che da sempre mi corre intorno e non c’è capo da cui riannodarlo, non c’è nodo che finalmente abbia sciolto che ne abbia svelati altri ancora più stretti e indistricabili. Non ricorderò più niente del mio segreto, delle mie bracciate spensierate sulla spiaggia e mi dirò che non era ancora il Messico. Forse urlerò tra le lacrime fino a lacerarmi le corde vocali “Quanto manca a questo dannato Messico?”

Sei sicuro che sia una buona idea?

Anche questo è il Messico.

CANIS LUPUS