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CRISI, LEGAMI, PRIVILEGI

A tutti i fallimenti emotivi, miei “privilegi”
che temprano più forte ciò che Resiste
nella Crisi
e quindi,
a tutte le mie Speranze.

Da quando l’emergenza Covid è cominciata e il lock-down ci è stato imposto, tanti pensieri verso cui impiegavo molte energie a tenere chiusi dentro a sportelli chiaroscuri della mente, si sono invece ripresentati, ricorrenti e inevitabili.
È successo a me come a quasi tutti noi.
La crisi, il precariato, l’incertezza, l’instabilità relazionale, le minacce alle possibilità di fioritura personali.
Nel 2008, quando iniziò la grande crisi, ero in quarta superiore, in quell’isola felice all’interno di una provincia bianco-bigotta chiamata liceo artistico. Amavo quella scuola, il tempo passato sulle tavole. Anche i miei compagni la amavano, anche quelli a cui studiare non interessava: amavamo essere in quell’ambiente rilassato, accogliente e insieme stimolante. Una sorta di scuola-famiglia: pochi studenti, materne e paterni prof. Una bambagia.

Pareva, a me sui banchi di scuola quanto a chiunque altro ovunque si trovasse, assurdo immaginare un parallelo con la mitologica “crisi del ‘29” tanto evocativa dei suoi proletari in canottiera, macchine da scrivere, sigarette, pugili maledetti e bicchieri di whiskey con ghiaccio. La crisi eccola, ma avanti che ci saremo laureati passerà anche, ci dicevamo.

Mi sarei dovuta trovare dieci anni più tardi in Grecia per trovare tutto quel portato visivo, immaginario, iconico della crisi.
La crisi in Itala è stata spietata, è stata pervasiva, ma la Grecia ne porta le effigi: non nelle provincie nascoste o nelle nuove periferie, ma nei cuori delle città, davanti ai monumenti principali, schiere di edifici sprangati cosparsi della carta già antica di cartelloni pubblicitari (compro oro?), paradisi di writers (ma avere così tanta superficie non suscita sgomento a ogni artista?), più raramente di squatters.
Se in Italia la crisi è stata motore dell’igenizzazione delle città, in Grecia ha trovato uno specchio cristallino.
Nonostante che nel 2008 fossi ancora in tempo, dopo la maturità scelsi comunque di iscrivermi all’università in una facoltà umanistica. È stato pochi anni fa, dopo essermi laureata, che ho SENTITO che la crisi la pagavo, che la stavo già pagando, che la pagavamo tutti noi “bianchi piccolo-borghesi del privilegio”.
Intendiamoci, la coscienza e lo scandalo di quanto “gli oppressi della terra” pagassero sempre e sempre di più e di trovarmi solo a qualche passo da loro non è mai mancata, ma a un certo punto questa non era più una deduzione logica, uno schieramento politico. È diventata invece anche e soprattutto una percezione fisica: non solo gli oppressissimi la pagano, ma IO la pago, NOI!
La Crisi, maiuscola, non più relegata al miglioramento economico o professionale della mia vita futura, alle mie possibilità, ma come qualcosa di già in corso da tempo, di qui e ora e impedente e ingombrante.
Banalmente, a un punto è diventato difficile trovare un modo di stare vicino alle persone che volevo curare e fare le cose che amavo fare. Assieme a questo la consapevolezza pratica che ciò non riguardava solo me, ma chiunque, più o meno coetaneo, mi circondasse.
Una questione generazionale: è difficile tenersi legati a dei progetti assieme a chi ci è prossimo. Di qualsivoglia prossimità e affinità si tratti: ideologica, famigliare, affettiva, professionale, caratteriale, valoriale.
La Crisi del capitale la abbiamo pagata e la paghiamo.
Il suo conto non è tanto un conto professionale quanto un conto umano: si paga la crisi perché non si riesce a avere un lavoro umanamente arricchente nel contesto in cui si trovano i nostri progetti sociali e affettivi (delocalizzazione ). Oppure: si paga la crisi dividendoci tra più lavori di dubbia consistenza morale e materiale pur di poter restare dove sono i nostri progetti sociali e affettivi che però non riusciamo a coltivare perché impegnati nei suddetti lavori (flessibilità).
È in questo modo, con questo impedimento relazionale, che si viene a negare la possibilità di una narrazione collettiva e di appartenenza sociale nella propria condizione materiale.
Possiamo pensare la Crisi come perdita della possibilità di “dire”, o meglio di parlare in modo socialmente significativo data la compromissione della Comunità intesa come l’ insieme dei legami.
Da qui è evidente quanto la Crisi implichi fragilità e solitudine (per buona creanza rispetto a chi legge salto una tirata sul sottotesto a tutti chiaro: la repressione degli spazi sociali, dalle piazze alle occupazioni).

Poi eccolo: il Covid.
Un’altra crisi! La crisi delle crisi! Altro che 2008! Anzi, pare che già gli economisti avessero predetto una nuova recessione per il 2020, ma mai così: con il botto, perspicua, simultanea e totale!
Ineludibili e forti nei decreti di confinamento ecco anche loro: la fragilità e la solitudine.
In questo contesto di confinamento la prima vittima sacrificale è la Relazione.
Quello che ancora riusciamo di relazione… già perché qui la crisi ha giocato un altro ruolo di lungo periodo. È evidente che come generazione abbiamo problemi ad avere relazioni emotivamente compromettenti-intime: terrorizzati dalla poca solidità affettiva, disorientati dal sapere cosa non vogliamo ma non cosa vogliamo, ci manca il fiato davanti alle possibilità-del-qualcos’-altro.
È un fatto che riguarda troppi tra noi perché possa essere solo un dato personale.
Quanto sia lungo il periodo di questo fenomeno non saprei, certo è che l’esclusione delle possibilità di concretezza materiale e continuità sociale amplificano esponenzialmente l’instabilità affettiva.
In generale là dove non c’è relazione c’è solitudine: in ciò le relazioni intime sono solo la punta dell’iceberg.
La solitudine si presenta come il pericolo principale della Crisi (e del confinamento, sua caricatura e sineddoche).
L’allarme me lo sento addosso, e lo sento addosso a amici e compagne: la paura di perderci o di smettere di credere nell’avere progetti insieme. In tanti, attenti, vegliamo sull’umore critico e quarantenico degli amici. Esperiamo così il curioso paradosso della cura virtuale: risanamento della Comunità minata dalla Crisi o suo scimmiottamento tecnologico?
L’attenzione su di noi, e la cura tra di noi è un passaggio essenziale. Se non partiamo dalla nostra fragilità (piccolo borghese, sì) come potremo mai capire e costruire alleanze con altre fragilità ed altre oppressioni?
Allora parliamo della prima delle nostre fragilità.
In tanti hanno scritto sotto crisi (sotto chiave) delle relazioni al tempo del confinamento, tutti hanno parlato di quanto ricorsivamente i nostri pensieri tornino agli affetti negati: quelli perduti o quelli possibili ma non presenti, e in ogni caso, non chiusi assieme a noi nel lock-down.
Insomma una festa di fantasmi e Fate Morgane che genera improvvisi e profondi exploit comunicativi con persone semi-sconosciute e ritorni di attenzioni verso affetti diventati lontani.
Una psicologia alla Cast Away in cui deleghiamo al salvifico di una possibile presenza (che sia Wilson o l’immagine della forse-amante/forse-un-po’-di-più) la sostenibilità del presente tramite ripetuti “esercizi di assenza/presenza” giocati dall’immaginazione.
Per citare P. B. Preciado: «La nuova situazione, nella sua granitica immobilità, permette un nuovo grado di sorpresa, ma anche della propria capacità di mettersi in ridicolo». (1)
Si tratta di un panorama di corde dimenticate, tenerezze inaspettate che navigano nella contraddizione perturbante del vicino-lontano, tanto da mettere in questione cosa sia un legame, che cosa lo renda tale, e se non siamo pazzi in fin dei conti, prossimi al massimo, più che a qualcuno, alla perdita dell’esame di realtà.

È proprio sulla questione del legame che voglio proporre un gioco etimologico.
E si badi bene: che sia un gioco, che niente ci sia di prescrittivo, che niente abbia a che vedere con la realtà, se non quella in cui si muove la nostra capacità di immaginare.
La parola con cui giochiamo è la parola “privilegio”. Esattamente la parola della rabbia e dello sdegno politico.
A quanto pare è una parola composta da due parti: privus e ligium.
Privus significa “solo” nel senso di “isolato”, “particolare”, in italiano diventa poi “privo” o meglio “senza”. Ligium invece ha la stessa origine di legem (lex), “legge”.
“Privilegio” dunque ha il comune significato di, “legge fatta per una persona particolare”, “legge d’eccezione”, ciò che riguarda chi sta fuori (o sopra) dalla legge, o meglio “senza legge (comune)”.
Quanto a “legge” è invece sorprendente quanto abbia un’etimologia assai incerta. Se la competono più teorie, una, al momento più accreditata, la vuole una voce parallela ad antiche lingue nordiche vicina alla parola “letto”. Un’altra teoria la vuole legata a lĕgo (raccogliere, leggere, scegliere). Infine la teoria che per lungo tempo era sembrata più ovvia riconduce lex a ligo/ligare ovvero “legare” cioè la stessa radice di “legame”.
Noi, un po’ per assonanza, un po’ per amore di intuitività, ma soprattutto per spirito di gioco, seguiamo quest’ultimo filone.
Esce così fuori che “legame” e “legge” condividono una parte di significato.
È possibile quindi pensare al “legame” come legge verso sé stessi: uno zoccolo duro, un irriducibile. È la cosa che fa sì che io non possa fare “una porcata” a un amico oppure fa sì che “la mamma sia sempre la mamma” per quanto conflittuale possa essere il rapporto con il genitore.
Un qualcosa che non tiene rispetto a una persona, che non lega, che non è cogente, che non è legge, di per sé non è un legame.
Così scopriamo che il privilegio, a un certo livello, altro non è che l’assenza di legami, la solitudine, l’esser privi. Paradosso e condizione a cui, inevitabilmente, ci riconduce la Crisi.
Con l’ironia della sorte, o dell’etimo, ho rifiutato più volte il concetto stesso di relazione, preferendo a questa l’espressione di “legame privilegiato”.
Le strategie con cui prendiamo in giro noi stessi sono sorprendenti e imprevedibili.
Averlo saputo che l’unica cosa che significa un “legame senza legame” è una bestemmia.

1- P. B. Preciado il cui articolo è stato tradotto su Internazionale https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2020/04/18/amore-dopo-coronavirus

MyssNerva Snyder